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La
parabola del Vangelo odierno descrive l’aspra polemica di Gesù
contro i farisei ed i capi del popolo. Per comprenderla è
opportuno premettere qualche breve notizia sul ruolo della
simbologia della vigna nella tradizione biblica. La vigna
rappresenta il popolo di Israele, scelto da Dio tra tutti i
popoli come sua proprietà ( Es 19,5) non perché è il più
numeroso o forte, anzi è il più piccolo fra tutti i popoli (cf
Dt 7,7); scelto perché amato da Dio con particolare attenzione,
chiamato per portare frutto. Il vino, frutto della vigna, è
simbolo di gioia, di festa, di amore; é sempre presente nelle
celebrazioni matrimoniali. (Si pensi al miracolo di Cana: Gv 2).
Esprime la felicità promessa da Dio a coloro che gli sono
fedeli. E’ simbolo dei tempi messianici.
La parabola che ci viene proposta dalla liturgia odierna è
l’allegoria della storia dei rapporti tra Dio ed Israele. Le
immagini adoperate: piantare la vigna, circondarla con una
siepe, scavarvi un frantoio, costruirvi una torre indicano
l’interesse, la cura personale di Dio nei riguardi di questo
popolo. La parabola è la denuncia dell’infedeltà storica di
Israele; ma in essa si può leggere anche la drammaticità della
storia della salvezza. La vicenda è racchiusa in due quadri. Nel
primo primeggiano i vignaioli, nel secondo il padrone. I servi
che i vignaioli uccidono rappresentano i profeti, i quali,
mandati da Dio,non trovano il debito ascolto. L’invio del figlio
costituisce la tappa decisiva, ultima. Il padrone, mandando il
proprio figlio, l’unico che ha diritto all’eredità, dà l’estrema
prova del suo affetto verso la vigna. Ma la reazione è
drammatica. I vignaioli prendono il figlio, lo cacciano fuori
della vigna e lo uccidono.
Il figlio rappresenta Gesù, il quale tramite la parabola
profetizza il dramma della sua imminente morte. Ma Gesù è
interessato a coinvolgere i suoi ascoltatori nel dramma. Da qui
la domanda: “Quando verrà il padrone della vigna che farà dei
vignaioli?”.
Con tale interrogativo e con la relativa risposta Gesù introduce
il tema del giudizio che si attua in due fasi: la condanna dei
vignaioli ed il trasferimento della vigna ad altri vignaioli che
porteranno frutti. Egli evidenzia che la vigna non è distrutta,
rimane salva; i coloni omicidi vengono fatti perire, al loro
posto vengono altri operai che la faranno fruttificare. La
storia della salvezza, cioè la storia dell’amore di Dio, non
poteva finire; essa continua. La morte del figlio invece di
costituire la fine della sua opera, apre la via al suo trionfo.
Gesù ucciso diventa la pietra angolare dell’edificio. L’immagine
della vigna è sostituita da quella dell’edificio (la Chiesa), al
cui fondamento sta Cristo: Egli è il principio, il fondamento
della Chiesa. La prospettiva cristologica si apre e si sviluppa
in quella ecclesiologica. I nuovi vignaioli sono assimilati ad
un popolo, il quale è contrapposto al primo, l’infedele; ma non
si identifica con i soli pagani convertiti. Esso infatti è
l’intero popolo messianico, composto da ebrei e pagani, fondato
sulla pietra angolare che è Cristo morto e risorto.
Nella parabola è messa in evidenza la necessità di portare
frutti. L’idea è sottolineata in modo specifico nei vv.41 e 43.
Si tratta di un argomento caro all’evangelista Matteo. Il segno
distintivo del popolo messianico è la fedeltà nell’amore attivo
verso Dio. Essere membri del popolo messianico impegna ad una
vita feconda di frutti di fedeltà a Dio. È la fedeltà fruttuosa
che si realizza, si gioca nella quotidianità, nel luogo dove si
vive. Il giudizio finale sarà fatto in base ai frutti dell’amore
fedele.
Nella parabola emerge perspicuo un altro concetto: l’amore
premuroso di Dio segna la storia dell’uomo; quindi anche la
storia di ciascuno di noi. Anche per noi oggi risuona
l’affettuoso, premuroso interrogativo di Dio: “ Che cosa dovevo
fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?” (Is 5,4
prima lettura). Vogliamo ricordare le eloquenti parole di S.
Agostino:
"Egli coltiva noi come l’agricoltore coltiva il campo. Per il
fatto dunque che Egli ci coltiva, ci rende migliori - poiché
anche l’agricoltore rende migliore il campo coltivandolo - e
cerca in noi il frutto. La sua opera di coltivatore nei nostri
riguardi consiste nel fatto che non cessa d’estirpare con la sua
Parola dal nostro cuore i germi del male, di aprire il nostro
cuore, per così dire con l’aratro della Parola, di piantarvi i
semi dei precetti e d’aspettare il frutto della fede […]. Il
nostro frutto, però, non renderà Lui più ricco, ma renderà noi
più felici”. (S.Agostino, Discorso 87, 1,1).
La parabola ci richiama a considerare la gioiosa verità che Gesù
è la vite e noi siamo i tralci innestati in Lui: “Io sono la
vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa moto frutto”
(Gv 15,5). |