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8 settembre

XXIII Domenica del tempo ordinario
(Anno C)

Dal vangelo secondo Luca (14,25-33)

 
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

RIFLESSIONE
E’ importante costatare che Gesù precisa le richieste per essere suoi discepoli dopo avere notato che molta gente lo segue mentre si dirige verso Gerusalemme, dove sarà arrestato, processato, condannato a morte. Ciò potrebbe essere interpretato nel senso che Egli voglia quasi scoraggiare la folla a seguirlo. Non è così; l’invito è rivolto a tutti. Egli intende piuttosto mettere in risalto la serietà della scelta di impegnarsi per lui. Le sue richieste sono molto esigenti.
Anzitutto Gesù reclama di essere anteposto a qualsiasi affetto: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Il linguaggio è forte: Luca parla di “odio”. La formula parallela di Matteo suona così: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). Il termine “odiare” è un ebraismo che non va preso alla lettera. Gesù non abolisce il quarto comandamento, anzi lo riconosce (cf Lc 18,20), né sopprime gli affetti familiari. Esige la scelta radicale che subordina ogni affetto a lui. Egli deve avere il primato nella gerarchia degli affetti. SeguirLo significa metterlo al primo posto.
La radicalità della sequela riguarda non soltanto gli affetti familiari, ma anche la stessa vita. Il discepolo deve essere pronto anche al martirio pur di non perdere Gesù. Gesù passa davanti a tutto, anche alla stessa vita.
C’è un’altra richiesta: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Negli ascoltatori l’espressione “portare la propria croce” risvegliava l’immagine terribile del condannato a morte che portava da sé il legno al quale stava per essere inchiodato. Gesù vuole dire che l’ombra della sua croce si riflette, si prolunga sulla vita del discepolo. “Portare la propria croce” significa mettersi nella disposizione di affrontare tutti i sacrifici e la morte stessa per rimanere fedeli a Gesù, per seguirlo fedelmente. Si tratta delle abnegazioni e delle rinunce che si impongono al cristiano ogni giorno.
Gesù nell’indicare queste priorità di scelta invita alla riflessione. La sua sequela è un compito che richiede impegno e costanza. Per rendere comprensibile questa esigenza Egli porta due parabole, le quali non hanno lo scopo di sottolineare la necessità di prendere in considerazione le proprie forze quasi che la sequela di Gesù non fosse obbligatoria e che davanti alla sua proposta ci si potesse tirare indietro. L’invito porta con sé la grazia di vivere da discepoli. Entrambe le parabole vogliono piuttosto evidenziare una scelta che coinvolge profondamente la persona ed inculcare la necessità della coerenza, della perseveranza. Nelle questioni umane importanti si fa di tutto per raggiungere l’obiettivo propostosi, anche a costo di qualsiasi sacrificio, per non esporsi al fallimento, alla derisione. Allorché si tratta della sequela di Gesù l’impegno deve essere serio e perseverante. Questo è il “calcolo” richiesto al discepolo.
Le parole di Gesù: “chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” vanno intese alla luce di Lc 12,33 e 18,22, vale a dire nel senso che esiste un duplice modo di seguire Gesù: uno che è quello rivolto a tutti, l’altro, particolare, che consiste in quella adesione a Lui, la quale richiede il massimo sacrificio che non tutti sono capaci di affrontare. Questo però non comporta la diminuzione della tensione, valida per tutti, nel tenere il cuore distaccato dai beni terreni. Se il cuore è attaccato alla ricchezza si inaridisce e si chiude a tutti i sentimenti anche a quelli più nobili: anche all’amore e al rispetto per il padre, la madre, i fratelli e le sorelle.
Il cristianesimo è gioia, ma essa non è donata a poco prezzo o gratuitamente. Gesù ha raggiunto l’esaltazione passando per la croce. Ciò vale anche per il discepolo. Non c’è pasqua senza il venerdì di passione.

Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
(Salmo 89)